Quattro esercizi sul visibile

Giovanni Chiaramonte
Quattro esercizi sul visibile

[1] Immersi nell’acqua del nostro principio, sospesi tra il labirinto delle viscere e la soglia ancora chiusa della vita visibile, dimoriamo dapprima dentro la nostra origine. Dicono che da lì noi possiamo percepire ogni suono e che, da quel nero interno senza ricordo, noi, già sensibili alla voce, riusciamo a udire anche il discorso.
In questo modo veniamo generati, nel buio e nell’ascoltare la parola.
Poi, varcata la soglia della creazione, veniamo alla luce e gettati all’esterno, nell’enigma delle forme come nel mistero delle figure, il mondo si offre a noi come immagine: in quel momento, noi diventiamo sguardo.
Inizia allora la peripezia della nostra esistenza, attraverso i labirinti che vediamo aprirsi incessantemente davanti ai nostri occhi, sulla superficie del mondo, e attraverso i labirinti abissali che, a occhi chiusi, percepiamo spalancarsi altrettanto incessantemente dentro di noi. E nello sguardo, attraverso il segno e la memoria, possiamo imparare a dare il nome a ogni cosa e a riconoscere la forma di ogni cosa.
Sospeso tra la scena gloriosa e tremenda del visibile e il retroscena invisibile delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri, delle decisioni, l’io dell’uomo emerge misteriosamente come uno specchio duplice e ambivalente su cui, da una parte, si riflette l’oggettività infinita della realtà esteriore e dove, dall’altra parte e contemporaneamente, si proietta la soggettività infinita del mondo interiore. L’io dell’uomo si pone come uno specchio immateriale eppure esistente, introvabile eppure operante, perché definito dal tempo e non dallo spazio in quanto apparentemente destinato alla morte; eppure uno specchio sacro, addirittura divino, dove ogni immagine concreta emessa dalla natura viene transfigurata in una nuova e diversa immagine, altrettanto concreta, per opera di quella singolare modalità di visione, unica nella genealogia dei viventi, chiamata arte oppure cultura oppure scienza.
Persona viene definita nella classicità greca e latina l’io dell’uomo, maschera di un volto che riesce ad essere protagonista della propria storia ma che, rispetto al destino dell’ultimo approdo, mostra e rivela nella medesima misura in cui, tragicamente, mimetizza e vela.
Immagine di Dio è per i testi biblici del Genesi[1][Gen 1,26] l’io dell’uomo; e per Paolo di Tarso noi “come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste”[2][1 Cor 15,49].
Grazie al geniale intrecciarsi di queste due tradizioni si è potuto formare il canone della rappresentazione occidentale che, attraverso il teatro e la pittura prospettica, è arrivato all’invenzione della fotografia[3][“Non esiste ancora una storia dell’arte che studi i mutamenti dell’arte figurativa in ragione del suo rapporto con la luce… Non avendo nessuna definizione dell’arte in cui sia costitutivo … Continue reading. Con il cinema e la televisione, suoi derivati, la fotografia ha fatto della nostra epoca “l’epoca dell’immagine del mondo”, scrive Martin Heidegger: “il tratto fondamentale del Mondo Moderno è la conquista del mondo risolta in immagine […] e il fatto che visione del mondo continui a valere come designazione della posizione dell’uomo in seno all’esistenza offre la prova della perentorietà del processo di costituzione del mondo a immagine”(([Martin Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze 1968])).
Nell’essere trascrizione prospettica dello spazio e trascrizione istantanea del tempo, la fotografia diviene specchio e memoria della realtà nel mistero della sua complessità e della sua totalità, nel segno dell’infinito che è inciso nell’anello di messa a fuoco di ogni obbiettivo su ogni apparecchio.
“Una fotografia è sempre un’immagine duplice”, testimonia Wim Wenders: “mostra il suo oggetto e – più o meno visibile – dietro, il controscatto, l’immagine di colui che fotografa […] La macchina fotografica è dunque un occhio che può guardare nel contempo davanti e dietro di sé. Davanti scatta una fotografia, dietro traccia una silhouette dell’animo del fotografo: ovvero coglie attraverso il suo occhio ciò che lo motiva. Una macchina fotografica vede perciò davanti il suo oggetto, e dietro il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato. Mostra le cose e il desiderio di esse”(([Wim Wenders, Una volta, Roma 1993])).
La fotografia è così uno straordinario analogo dell’io dell’uomo: immagine di luce che viene generata nel buio, immagine finita in cui si specchia l’infinito, immagine del visibile in cui si rivela l’invisibile.
Per Italo Calvino, qfwfq è il nome di colui che narra il destino dell’uomo gettato nel cosmo, lontano dal proprio principio come all’oscuro del proprio fine. Nome indicibile qfwfq, dove la lettera w giace sospesa come l’io dell’uomo nella propria esistenza: sguardo creato per vedere, voce chiamata a parlare, immagine simmetrica e speculare di un vuoto che si spalanca all’improvviso sull’abisso di un silenzio senza fine. Nel vedere le immagini di città edificata dall’uomo, piene di meraviglia e di stupore, è questo il momento disperato di Kublai Kan, il momento disperato di Marco Polo, il momento disperato di ogni uomo, il momento disperato di ogni fotografo in viaggio attraverso l’impero dell’uomo: “è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina”[4][Italo Calvino, Le città invisibili, Torino 1972].
Eppure, contemplando le fotografie, a volte è possibile “discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”[5][Ibidem-1]. Immagini sottili, eppure evidenti, scattate da chi, nel presente del tempo, rifiuta di “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”[6][Ibidem-2].

[2] Si riesce a tornare oggi in un’isola a sud del mondo dove non si è nati e in cui si è conosciuto appena il volto giovane di nostro padre e nostra madre soltanto perché lì, in una terra chiusa dai confini del mare, accidentata e difficile come la Sicilia, un giorno qualcuno ci ha accolto e amato sino alla fine. Oltre le distanze, gli abissi, i limiti, i mutamenti della condizione umana, quell’esperienza felice di un sentimento incondizionato e fedele ci ha trasmesso la capacità di confessare e affrontare ogni errore e mancanza e ci ha dato la forza di attraversare ogni smarrimento e peccato, donandoci la grazia di vedere la verità della nostra immagine latente nel cuore di ognuno di noi: l’immagine che ciascuno è chiamato a rivelare e portare alla luce del visibile, nel dramma del reale. Su quella scena innalzata attorno a noi come un labirinto, tra meandri, paradossi e contraddizioni del pensiero, il nostro sguardo osserva e contempla le forme e le figure del visibile con stupore e spavento, meraviglia e repulsione, gioia e indifferenza sino alla noia: lo sguardo le riconosce tutte apparentemente nominabili, descrivibili, eppure nello stesso tempo le scorge permanere altrettanto indicibili, non rappresentabili, indeterminabili, ultimamente non conoscibili come un enigma senza soluzione, e le vede quindi mutare, corrompersi nell’evidenza stessa della loro esistenza, del loro uso, della loro liturgia, decadere allo stato di rudere e rovina, ridursi a frammento e reperto catalogato negli ordinati scaffali di un nuovo museo o di un parco archeologico, fino a smarrirsi tra un mare di luce e buio nella polvere che invano ha cercato di redimere l’arte alchemica di Marchel Duchamp. La passione dell’anima e la crocefissione dello spirito nel dramma della realtà, il ricordo di chi non è più tra noi, sparito per sempre dall’orizzonte del nostro sguardo, riportano il cuore al dolore primo e ultimo, ci spingono inesorabilmente verso quel punto estremo dove i confini del visibile schiumano sino a svanire sull’orlo di quella superficie senza fine da cui siamo emersi come isole nel mare del tempo.
In quel battito interiore che pulsa nel buio senza fondo del nostro respiro, il sentimento di chi ci ha accolto e amato sino alla fine permane, luminoso come l’angelo sulla soglia del sepolcro all’alba di quel nuovo giorno, il primo dopo il Sabato. Vivo oltre ogni possibile fine, quel volto umano presente nella memoria, nella morte contempla e rispecchia uno sguardo divino e infinito. Si può rimanere fermi e increduli ai margini di quelle tenebre che salgono e s’infittiscono sino a coprire e spegnere ogni scintilla di luce nei nostri occhi. Si può aver fede in quella luce sino a immergersi nell’acqua interiore dello spirito e farsi portare dal suo fluire, attraverso ogni dimensione del reale, lungo la linea tracciata da quel punto di fuga verso l’infinito che crea e sostiene in ogni istante del tempo l’impensabile profondità di una prospettiva eterna, nella mobile e viva dimora di ognuno di noi nella gioia. Con Walker Evans posso dire che “quello che faccio è un atto di fede. Altri possono chiamarlo presunzione, ma io ho fede e convinzione. Mi è stata data e l’ho usata. Ho sofferto per la sua mancanza ma, ora che l’ho ricevuta, credo che appaia come una forma di egocentrismo. Devo aver fede o non posso agire. Penso che quel che faccio sia valido e che sia giusto farlo, e uso il termine trascendente”[7][in Photography speaks, edited by Brooks Johnson, New York 1989].
Ogni vista, anche quella sulla più desolata e insignificante provincia della banalizzazione globale, può assumere l’aspetto luminoso di un evento inaspettato e può mutarsi nello splendore di un’azione su cui non si può pretendere alcun potere o possesso e su cui è impossibile esercitare alcuna forma di conoscenza definitiva. Ogni vista è immagine e come tale, nella prossimità rappresentabile di tutto ciò che ci circonda, mantiene intatta e intangibile la presenza smisurata e sconfinata della totalità, l’evidenza di un mistero che appare in essa e attraverso di essa si fa visibile.
Quando il fuoco dell’obiettivo è accordato sul segno dell’infinito, anche la fotografia, nell’abbraccio della sua vista, si riscopre capace di attraversare ogni nascosta profondità del reale, facendola emergere nel visibile della rappresentazione. Attraverso lo sguardo di una persona, in quel punto e in quel momento, la speculare opacità di una fotografia può farsi diafana trasparenza di una luce sul mondo e sull’uomo che precede e crea sia il mondo sia l’uomo: una luce che soltanto nello sguardo di un uomo può generare un’immagine nuova e significativa del mondo. Scrive Pasolini il 13 maggio 1962: “… Solo il sole / imprimendo pellicola può esprimere / in tanto vecchio odio un po’ di vecchio amore”[8][Pierpaolo Pasolini, Poesia in forma di rose, in Bestemmia 2, Milano 1999].

[3] Sullo schermo di visione della mia camera ottica, nella nitida profondità di campo che dal primo piano in cui sono immerso spinge e allarga lo sguardo lungo il punto di fuga verso l’orizzonte dell’infinito, il reale mi è apparso sempre indeterminato e mai determinabile. Aver cercato di accogliere il reale nella sua totalità mi ha via via liberato da ogni possibile determinazione, mi ha generato all’arte della vita e mi ha spalancato la visione dell’esistenza che, impensata e impensabile, accade sempre nuova in noi e attorno a noi.
Realismo è l’esperienza e la rappresentazione dell’infinito nel non determinato e nel non determinabile che è l’esistenza del mondo e dell’uomo nel suo essere evento, avvenimento, storia.
Posso indicare col nome di realismo infinito il percorso della mia fotografia, perché l’atto in cui essa viene alla luce si genera in questa esperienza e con questa modalità di visione.
Il realismo infinito è l’accoglienza dell’oggetto da parte del soggetto, è la comprensione dell’Altro da parte dell’io in una relazione che lascia entrambi nella loro irriducibile differenza e identità, ed è la trascrizione di ciò che è dato nel mondo davanti agli occhi e dentro gli occhi dell’uomo in immagine che lo rappresenta. L’immagine nella mia opera si pone come specchio del mondo ed è sempre rivelazione della morte dell’uomo, non solo perché l’accoglienza, la comprensione, la trascrizione del dato ne indicano la presenza nel mondo ma, soprattutto, perché è la dinamica stessa di questa accoglienza, di questa comprensione, di questa trascrizione a chiedere e imporre una sorta di morte spirituale del soggetto, un suo cosciente e consapevole mettersi da parte, un suo sacrificio libero e necessario. Il soggetto deve appiattirsi fino a diventare un semplice e puro piano di riflessione, affinché su questa superficie possa apparire, nella rappresentazione, l’immagine speculare dell’oggetto. L’io deve annullare la propria presenza sino a cambiarla nel suo contrario, in vuoto: solo nel vuoto dell’io può infatti farsi visibile la presenza dell’Altro. L’appiattirsi del soggetto, l’annullarsi dell’io costruiscono la sola scena in cui è possibile questa rappresentazione. E, per quanto mi riguarda, questa è l’unica scena possibile per una rappresentazione veritiera e verosimile del mondo. La rappresentazione messa in scena dall’immagine ottica si configura inevitabilmente come dramma: non solo perché la vita dell’uomo è tale, ma perché questa immagine nel suo stesso farsi è dramma, necessitando del dinamismo di appiattimento del soggetto e di annullamento dell’io per poter diventare visibile. L’atto del mio fotografare è l’atto della messa in scena di questa rappresentazione: è realismo infinito in quanto rivela la forma e la figura di quella parte reale del mondo che è l’uomo, uomo che è formalmente e figurativamente dramma, ovvero movimento vivente chiamato alla ricerca senza fine del proprio senso. Un movimento che è il dramma in cui il pulviscolo molecolare della materia, la polvere costitutiva del mondo, prende la forma e la figura dell’uomo, trasformandosi e trasfigurandosi in immagine e somiglianza di Dio. Nella mia fotografia il reale si rivela nella definitività dell’evento, nell’istante che è sezione aurea del tempo: istante che è morte e quindi fine del movimento stesso, istante che è memoria e apertura al senso eterno, origine e destino di questo movimento.
Scaturito dal mistero profondo del mondo e dell’uomo e aperto all’infinito, questo movimento attraverso la propria morte supera ogni disgregazione della morte stessa, ogni momentanea indifferenza, ogni possibile uniformità della dimenticanza. E sulla via del realismo infinito, nel configurarsi come punto di fuga e forma dell’istante, l’immagine della fotografia può diventare specchio della vita dell’uomo, testimonianza e memoria dell’irriducibile presenza del mondo e del senso dello stare al mondo. La piatta superficie su cui Marcel Duchamp può solo realizzare L’allevamento di polvere si capovolge nel piano della scacchiera, nei quadrati bianchi e neri in cui si svolge la partita del nostro destino.

[4] Il mondo dell’uomo nelle mie immagini si rivela come un piano senza fine immerso in una sorta di luminosa lontananza sospesa nel tempo. L’evidenza degli elementi in primo piano cerca di non invadere e non chiudere mai l’enigmatica ampiezza del campo visivo; e così fa in modo che lo sguardo si possa aprire lentamente alla percezione degli eventi che sono rappresentati il più delle volte lungo l’ultima profondità della scena, o addirittura sulla soglia dell’orizzonte. Il tempo di questo movimento dello sguardo è analogo al lento musicale: è il tempo del contemplare, reso possibile dalla rarefazione degli elementi significativi e dalla loro messa a distanza sull’alzato degli assi prospettici di terra. è un vuoto necessario al vedere come il silenzio interiore è necessario per ascoltare dai margini di un parco, o dalle ultime vie di una periferia, i suoni che si alzano dalla città e per distinguere tra il rumore della risacca del mare l’abbaiare di un cane, o le voci di uomini e donne portate dal vento con le grida di ragazzi che giocano al pallone sulla spiaggia lontana. Lo sguardo non deve essere colpito da nulla: nulla che provenga dall’interno dell’immagine deve imporsi con forza alla coscienza. Lo sguardo deve poter decidere liberamente se e come inoltrarsi nell’immagine e, dopo aver attraversato i diversi livelli della fotografia messi nitidamente a fuoco dal primo piano sino all’infinito del punto di fuga, da questo punto volgersi verso il proprio interno, dentro la coscienza, e da qui volgersi ancora verso l’esterno. In questo viaggio, che tocca il limite estremo dell’oggetto che è il mondo e del soggetto che è l’uomo, credo che ogni aspetto del reale si possa rivelare come vista sublime, traccia di una prossimità amica, eco di un ricordo rimosso e ritornato alla luce come un presentimento d’amore.
In questo percorso dello sguardo, nella lontananza che l’immagine apre alla coscienza io esperimento tutta la distanza che mi separa dal mondo, da quel mondo che io stesso dovrei cominciare a essere. E fotografia dopo fotografia io esperimento la gioia dell’infinita libertà donata al mondo e all’uomo.
 
 

References

References
1 [Gen 1,26]
2 [1 Cor 15,49]
3 [“Non esiste ancora una storia dell’arte che studi i mutamenti dell’arte figurativa in ragione del suo rapporto con la luce… Non avendo nessuna definizione dell’arte in cui sia costitutivo il rapporto con la luce, non possediamo neanche una storia dell’arte sub specie lucis.” Malgrado la nascita della Fotografia nel 1839 con due procedimenti diversi da parte di Jean-Louis Daguerre e Henry Fox Talbot e quella del Cinema da parte di Louis e Auguste Lumière nel 1895, può scrivere così Hans Sedlmayr in La luce nelle sue manifestazioni artistiche del 1979, pubblicato in Italia presso Aesthetica Edizioni di Palermo nel 1989. Quando per l’invenzione di Fox Talbot, Sir John Herschel suggerisce come nome scrittura della luce, egli ne coglie sino in fondo la natura di lingua della visione, incomparabilmente facile da imparare e da usare rispetto a tutte le lingue scritte o parlate, eppure immediatamente e universalmente comprensibile. In quanto tale, la Fotografia è divenuta strumento di comunicazione fondamentale per ogni disciplina scientifica e per ogni altra attività del genere umano, dalla storia alla geografia, dall’archeologia all’astronomia, dalla moda al giornalismo, dal turismo di massa sino all’espansione istantanea globale attraverso i telefoni cellulari con digital camera. Come dalla scrittura operosa dell’umanità si è distaccata la letteratura nella forma del poema, del romanzo, della poesia, anche nella fotografia, sin dal suo sorgere, è venuta alla luce una ininterrotta genealogia di autori che l’hanno praticata come creazione artistica con assoluta consapevolezza critica attraverso l’ottocento e il novecento e le immagini di Thomas Struth, Andreas Gursky, Richard Misrach hanno raggiunto le quotazioni più alte sul mercato delle opere contemporanee. Forse a causa del suo essere scrittura della luce, ars sub specie lucis, Roland Barthes tra il 15 aprile e il 3 giugno del 1979 deve scrivere La camera chiara per essere “sicuro che la Fotografia esistesse, che essa disponesse di un suo proprio genio”. Malgrado ciò, non è stato sinora pubblicato un solo volume di storia dell’arte che affronti organicamente, e insieme, lo studio dell’opera di Pablo Picasso con quella di Henri Cartier-Bresson, di Cecil Beaton con quella di Francis Bacon, di Andy Warhol con quella di Richard Avedon, ed ancora oggi in Italia si può conseguire una laurea specialistica in Storia dell’Arte o in Scienze della Comunicazione senza sostenere alcun esame di Storia della Fotografia.]
4 [Italo Calvino, Le città invisibili, Torino 1972]
5 [Ibidem-1]
6 [Ibidem-2]
7 [in Photography speaks, edited by Brooks Johnson, New York 1989]
8 [Pierpaolo Pasolini, Poesia in forma di rose, in Bestemmia 2, Milano 1999]